La piccola tradizione del film a episodi si è tradotta raramente, a livello cinematografico, nella creazione di veri e propri capolavori, anche quando il livello dei singoli autori poteva dirsi eccellente. E quindi il fatto che questo 7 Days in Havana  da poco passato a Cannes (nella sezione “Un Certain Regard”, per la precisione) ci sia parso, nel complesso, un’operazione scialba e poco stratificata, non ci ha sorpreso più di tanto. Molto meglio ad esempio 11 settembre 2011, il film collettivo girato dopo l’attentato alle Twin Towers. Lì quantomeno vi era qualche episodio che spiccava nettamente sugli altri: per gusto personale citeremmo quelli diretti da Sean Penn, Idrissa Ouedraogo, Yusuf Chahin e ancora più il corto di Ken Loach, votato coraggiosamente a ricordare l’altro tragico undici settembre, quello del 1973 durante il quale morì Allende e Pinochet poté concludere in Cile il suo ferocissimo golpe. Riguardo invece a un 7 Days in Havana  firmato da artisti di spessore internazionale come Benicio Del Toro, Pablo Trapero, Julio Medem, Elia Suleiman, Gaspar Noé, Laurent Cantet e il cubano Juan Carlos Tabio, l’impressione è che nel complesso siano prevalsi i cliché e le mezze misure; con l’accento posto a volte, in maniera finanche sospetta, sull’ostracismo nei confronti di certi orientamenti sessuali e sul desiderio di andarsene da Cuba manifestato da alcuni personaggi. Non perché la vita sull’isola debba essere oggetto a tutti i costi di una sperticata apologia, per carità, ma la tendenza ad enfatizzare determinate problematiche, seppur sotto traccia, ci è parso un sintomo di scarsa empatia e di sguardi orientati troppo dall’esterno. Il calore de L’Havana, città pulsante di vita in cui l’eredità di una gloriosa rivoluzione socialista (per quanto annacquata nel tempo) qualcosa di buono lo produce ancora, compare perciò solo a tratti. Nonostante questi limiti, la personalità di certi autori è riuscita comunque a far breccia: trasportando fin là il suo humour eccentrico e frammenti di una iconografia mediorientale, Elia Suleiman ha confermato di possedere un singolare talento. E lo stesso Benicio del Toro, nelle insolite vesti di regista, pur con le piccole ingenuità che era lecito aspettarsi ha posto il sigillo su un episodio apprezzabile nella sua spigliata leggerezza. Andando oltre, il vuoto o quasi. Un cineasta che può risultare oltremodo irritante, come Gaspar Noé, lo è stato persino più del solito. Ed anche autori che in passato avevamo amato molto, come lo spagnolo Julio Medem, sembrano essersi piegati alla logica del luogo comune e di un facile esotismo.