Il nome di Oren Peli, discusso artefice del successo di Paranormal Activity, potrebbe mettere in allarme tutti gli appassionati del genere – e non sono pochi – che hanno considerato quel film più una riuscita operazione di marketing che un horror in grado di lasciare il segno, generando un genuino terrore.
Tutti i pregiudizi dovuti al modaiolo Paranormal Activity possono tranquillamente andare in soffitta, nel caso di Chernobyl Diaries – La mutazione. Il film in questione, diretto dall’esordiente Brad Parker ma scritto e prodotto proprio da Oren Peli, ha innanzitutto il merito di coagulare le diverse intuizioni presenti nell’odierno cinema di genere, in un plot il cui punto di forza sta nella natura agghiacciante e per nulla usuale delle location. Claustrofobia o agorafobia? Entrambe le suggestioni spaziali sembrano avere diritto di cittadinanza nell’innovativo racconto cinematografico, che vede il solito gruppo di giovani scapestrati  (in parte americani e in parte di altra nazionalità) avventurarsi nel luogo dove non avrebbero mai dovuto mettere piede: ma questa volta la topografia del terrore prevede addirittura forme di turismo estremo nei pressi di Chernobyl, centrale nucleare dislocata in Ucraina dove avvenne il noto incidente del 1986, che ebbe poi conseguenze terribili sia per l’uomo che per l’ambiente!

In Chernobyl Diaries – La mutazione si immagina che l’avventata scelta dei protagonisti di visitare quei luoghi sinistri e pericolosi, scortati lì da un ex appartenente alle forze speciali sovietiche i cui tratti da duro sembrerebbero garanzia sufficiente ad affrontare l’impresa, sfoci invece in un vero e proprio incubo capace di condurre tutti in un labirinto senza via d’uscita: con l’azione che si sposta gradualmente dalla città abbandonata di Pryapat, dove vivevano gli operai e i tecnici della centrale con le loro famiglie, fino all’area contaminata dei reattori nucleari, lo sciagurato gruppo di amici è destinato a confrontarsi con animali infetti, improvvise sparizioni, mutanti sempre più aggressivi e altri misteri che qui non è il caso di rivelare, onde lasciare intatta la suspance di una pellicola che i risultati migliori li ottiene più nella costruzione di atmosfere ansiogene, ossessive, opprimenti, che nel manifestarsi della mortale minaccia. Se il prologo a Kiev sembra riecheggiare Hostel di Eli Roth e le paranoie rivolte dal pubblico americano alle terre incognite dell’Europa Orientale, il proseguo della storia mette in evidenza svariate piste dell’horror  contemporaneo, da quella “complottista” che vede le autorità locali complici dei peggiori atti criminali, fino alle paure ancestrali già esibite, quasi sempre in  fuori campo, nel pionieristico The Blair Witch Project. Tuttavia, anche considerando la povertà di certi dialoghi e qualche sporadico calo di tensione, è la genialità dell’ambientazione a tenere  in piedi il film: la città fantasma di Pryapat e l’incubo del reattore esploso un tempo a Chernobyl sono ricreati ad arte, mescolando immagini di repertorio e scene  girate negli apocalittici scenari post- industriali, abilmente scovati dalla  produzione tra Ungheria e sobborghi di Belgrado. Il risultato è questo film conturbante,  spaventoso, che per la tensione renderà una parte del pubblico elettrica, anzi, radioattiva.