I Manetti Bros sono da sempre considerati un fenomeno piuttosto anomalo nel panorama cinematografico italiano. In particolare il loro amore per il genere senza distinzioni: dal noir, all’horror, alla commedia fino alla fantascienza come nel caso di quest’ultimo “L’arrivo di Wang”, li allontana da un certo cinema d’autore, o impegnato, ma nel cercare sempre una poetica e delle istanze di natura popolare non trascurano però una voglia di sperimentare, ben diversa dalle idee standardizzate e serializzate nel nostro cinema. L’arrivo di Wang è dunque l’ennesimo tassello, assolutamente coerente, nel percorso dei registi di Zora la vampira. L’idea è molto originale: un alieno giunge a Roma e viene immediatamente bloccato dai servizi segreti per studiarlo attentamente e carpirne più informazioni possibile. Peraltro, ulteriore difficoltà, per farlo dovranno servirsi di un’interprete di lingua cinese visto che è l’unico idioma parlato dall’extraterrestre. Lo spettatore però verrà catapultato lentamente in questa situazione: la tensione è data proprio dal non svelare immediatamente l’identità del fantomatico Mr. Wang, lasciando che siano i bunker sorvegliati e asettici, spogli, tipici delle basi militari nascoste, a generare quell’angoscia e curiosità premonitrici. Un’angoscia che riesce piuttosto bene nella parte iniziale, che condividiamo con la spaesata protagonista, una Francesca Cuttica che per l’occasione sfoggia un’ottima pronuncia del cinese mandarino. La partitura giallistica tuttavia mostra una battuta d’arresto quando si scopre la natura non umana del prigioniero, dando vita successivamente ad una situazione “da camera”: il poliziotto cattivo, il prigioniero misterioso e come terzo incomodo un’innocente testimone – la traduttrice appunto – che diventa a tratti meccanica e ripetitiva. I Manetti Bros sembrano fossilizzarsi sull’idea del pamphlet che si serve della fantascienza per parlare di altro: del diverso,  dei pregiudizi e della difficoltà nell’approcciarsi ad esso, dell’incapacità delle leggi e conseguentemente delle forze dell’ordine di comprendere e facilitare chi cerca di inserirsi e dialogare in un’altra società. Sono questi i temi che vengono trattati (anche piuttosto abusati, si guardi il recente esempio di “fantascienza politica” District 9, film in cui gli alieni sono considerati letteralmente come extracomunitari), con facili riferimenti alle difficoltà e alle intolleranze attuali, in generale per l’occidente e mai precisamente riferendosi all’Italia. Una cosa molto simile, senza l’ausilio di elementi visivi fantascientifici, ma semplicemente servendosi di dialoghi, la fece Alessandro Blasetti nei suoi Racconti di fantascienza, dei minifilm per la tv del 1979 in cui si affrontano i medesimi temi de L’arrivo di Wang prendendo spunto dagli autori della fantascienza classica. Si trattava però di film che duravano molto meno dei novanta minuti della pellicola dei Manetti, che seppure mostrando un alieno davvero ben concepito digitalmente, basano quasi tutto anch’essi come Blasetti sulla parola e non sugli elementi visivi. La noia che incombe non riesce completamente a svanire quando l’azione si fomenta e si ravviva, cioè quando la donna cerca di ribellarsi e fuggire dal bunker: una sequenza che, seppur bene girata, appare però una sorta di allungamento inutile della trama e di sfuggita dal tema principale, ovvero il mistero dell’alieno. Il film si riprende infatti solo nella parte finale quando si entra nella fantascienza nuda e pura, con tanto di astronavi e curiosi congegni alieni. E’ paradossale dunque ma L’arrivo di Wang delude parzialmente non, come ci si aspetterebbe da un film italiano di fantascienza, per una messa in scena poco credibile a livello visivo e di ambientazione, che invece è davvero efficace nei pochi elementi forniti, ma bensì per una sceneggiatura con diverse lungaggini e cadute di stile. Aggiungiamo a ciò una protagonista femminile che non sembra all’altezza, peraltro associata invece a un eccellente Ennio Fantastichini nella parte dell’uomo dei servizi segreti. L’originalità dell’operazione sembra perdersi e sciuparsi come se non si fosse riusciti a reggere, a livello di scrittura, l’azzardo ambizioso che accompagnava uno spunto del genere. In questo senso l’istanza di sperimentazione e di novità da sempre portata avanti dai due fratelli ne esce fuori un po’ ridimensionata, nell’occasione più atta a provocare, al massimo ad incuriosire, piuttosto che realmente a rileggere e rinnovare un genere che qui in Italia appare battuto sempre con serie difficoltà. Strano che la loro voglia di mescolare le ottime intuizioni visive in ambito action con la commedia, il grottesco e la natura italica, come accade in Piano 17 o nella serie tv L’ispettore Coliandro, a tutt’oggi le loro cose migliori, sia in quest’ultima opera quasi lasciata totalmente da parte. Flaiano scrisse nei lontani anni cinquanta Un marziano a Roma, un ‘opera teatrale poi anche film, che parlava di un alieno che si scontrava con quella che veniva definita “la città più cinica del mondo”, indifferente a lungo andare persino a persone di un altro pianeta. Un’associazione intuitiva geniale che pare però nessuno riesca a raccogliere passato più di  mezzo secolo, nemmeno i Manetti Bros che infatti non sfruttano assolutamente Roma e la sua ambientazione, cosa che invece ad esempio accadeva (seppure anche in quel caso non convincendo a pieno) nella horror-comedy Zora la vampira.