Dopo l’anteprima romana di pochi giorni fa al Centro Russo di Scienza e Cultura e coerentemente con l’annuncio, dato alla presenza dell’autore, che l’opera sarebbe uscita in un discreto numero di copie, ci fa enormemente piacere poter annunciare la distribuzione di Silent Souls (in originale Ovsyanki, dal nome di una particolare razza di uccelli, gli Zigoli). Esce quindi oggi, 25 maggio 2012, la pellicola russa che già nel 2010 seppe stregare le platee internazionali, aggiudicandosi peraltro l’Osella per il Miglior Contributo Tecnico alla Fotografia durante il 67° Festival di Venezia. Era ora! E se il premio per la fotografia ci sembra particolarmente indovinato, è nel suo insieme che il film di Aleksei Fedorchenko si segnala come una delle visioni più intense e stimolanti alle quali, in questo periodo, siamo andati incontro: i paesaggi incantati del bacino settentrionale del Volga fanno qui da sfondo a un racconto cinematografico permeato di rara sensibilità, una sensibilità che sa farsi aspra, urticante, così come sa conservare uno struggente lirismo. Silent Souls è in fondo la storia di un viaggio iniziatico, un po’ alla maniera dei due film che anni fa, a detta della critica russa, posero in evidenza la ripresa artistico/produttiva se non addirittura la “resurrezione” di tale cinematografia: Il ritorno di Andrei Zviagintsev (Leone d’Oro a Venezia nel 2003)  e il coevo Roads to Koktebel di Aleksei Popogrebsky: nel film di Fedorchenko il protagonista Aist accetta di accompagnare un amico, quel Miron cui è morta da poco l’amatissima moglie, nel luogo vicino al fiume che l’uomo ha scelto per congedarsi da lei.

Tutti loro sono infatti discendenti dei Merja, antica popolazione ugro-finnica della zona, i cui rituali, carichi di mistero e di vibrazioni panteistiche, sembrano rivivere nelle azioni e nell’approccio esistenziale dei protagonisti. Gli strascichi di secolari tradizioni sciamaniche e
paganeggianti. Lo scheletro di una società patriarcale aggiornata ad un presente contraddittorio. Il senso di rarefazione e spaesamento offerto dalla componente paesaggistica. Un erotismo primigenio che fa breccia nei ricordi. E su tutto ciò il prevalere dell’elemento fluido, liquido, sia nell’impatto visivo che nell’asse diegetico di un film che scorre accanto al Volga, che dei protagonisti riprende l’impulso a dissolvere le proprie vite nel grande fiume; come a rispettare la saggezza popolare di un tempo, affogandovi poi l’amarezza di vite lasciate andare così, in un ricercato oblio. Un esempio di grande cinema, questo Silent Souls, al quale un pubblico più ampio del solito potrebbe guardare con interesse, anche in virtù dell’ottimo doppiaggio cui hanno offerto un contributo voci splendide, carismatiche, come quella di Ennio Coltorti. Ed è questa cura nella “confezione” e nel lancio, piuttosto rara quando ci si confronta con le versioni italiane dei capolavori del cinema russo, che ci fa ben sperare: un’ottima occasione, insomma, affinché venga scoperto anche nelle nostre sale l’autore recentemente incensato da Tarantino, ma soprattutto capace di sorprendere con la carica visionaria e metaforica del proprio cinema; una cifra stilistica non ignota a chi ha avuto la fortuna di vedere, magari a qualche festival,  il surreale Zheleznaya Doroga (The Railway, 2008) o il fantascientifico “mockumentary” Pervye na lune (First on the Moon, 2005).