Al Nuovo Sacher di un Nanni Moretti giustamente gongolante per aver deciso di distribuire Cesare deve morire in tempi in cui l’Orso d’Oro non era ancora all’orizzonte, i giornalisti incontrano Paolo e Vittorio Taviani, il regista Fabio Cavalli (referente artistico di Rebibbia) e alcuni degli interpreti (Salvatore Striano detto Sasà e Fabio Rizzuto detto Fabione) che hanno messo in scena la tragedia shakespeariana all’interno del carcere.
Poiché in un film profondo e coraggioso, come è questo, il finale può coincidere con l’inizio di un importante viaggio interiore, ci piace partire dai commenti dei protagonisti su una delle ultime scene, quella in cui un detenuto-attore, riaccompagnato al suo alloggio dalle guardie penitenziarie, dichiara: “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione”. I registi spiegano che la frase pronunciata spontaneamente dall’ergastolano Cosimo Rega e “rubata” poi da loro per concludere il film, non vuole significare che l’arte fa soffrire, come qualcuno arriva ad ipotizzare in sala, ma al contrario contiene la scoperta che la vita non è finita ed è anche un importante messaggio rivolto ai compagni fuori, che hanno ancora una chance. Sasà aggiunge che la frase di Cosimo è una presa di coscienza resa possibile dal percorso culturale maturato, oltre a riconoscere che anche “la polizia penitenziaria è da encomiare per quello che fa in questo carcere sovraffollato”. A conferma di tutto ciò, arriva l’ammissione-shock dell’ex-detenuto Fabione, ora attore professionista: “Ho imparato più in 10 anni di carcere che in 40 anni di vita”. Purtroppo, non sempre dietro le sbarre vengono offerte attività didattiche e ricreative come nel carcere di Rebibbia, in cui sono presenti tre Compagnie teatrali seguite da 21.000 spettatori e formate da 100 detenuti. Queste attività sono così importanti per loro che il Garante per i detenuti del Lazio ha scelto di devolvere l’intero compenso spettante per Cesare deve morire al circolo culturale, con lo scopo di acquistare personal computer e libri.

Paolo e Vittorio Taviani ricordano che alla consegna dell’Orso d’Oro il pensiero è andato subito agli interpreti, “che possono anche avere commesso dei delitti orrendi ma sono e restano uomini. Con loro, sul set si era formata quella complicità che si crea sempre quando si cerca insieme una scheggia di verità attraverso un’opera”. Così, a chi chiede se durante le riprese pensassero alle vittime di quei detenuti, agli uccisi e ai parenti degli uccisi, i registi rispondono che il Giulio Cesare riusciva “a tirar fuori delle emozioni che in un certo modo purificavano quello che avevano fatto. Negli occhi vedevi che loro rivedevano l’assassinio. Proprio per questo abbiamo scelto quella tragedia shakespeariana, perchè oltre ad essere storia italiana rende possibile un rispecchiamento con fatti di sangue, congiura e tradimento. E’ chiaro che non tutti i detenuti hanno talento attoriale, ma loro ce l’hanno, e in più nello sguardo, nel parlare, nell’agire portano qualcosa del loro passato e del loro presente, perchè vivere in carcere è una tragedia”.
Contenti per il risultato ottenuto con la prima opera digitale in cui si cimentano, i Taviani spiegano che ogni loro film è nato da un’emozione e, appunto, assistere alle rappresentazioni teatrali (La tempesta e Amleto) dei detenuti di Rebibbia era stata una delle più grandi emozioni di questi ultimi anni. Anche se le riprese di Cesare deve morire si sono svolte nei bracci e nelle celle di un ambiente carcerario, i due fratelli hanno provato la sensazione di andare, attraverso l’arte, verso la luce e la libertà: “Uno dei detenuti alla fine ci ha detto: da domani niente sarà più come prima”.

Lady L. Hawke