Il coraggio oltre la camorra. Quello di Don Aniello Maganiello, che la sua battaglia contro la criminalità organizzata l’ha combattuta in prima linea, sul fronte infuocato del territorio di Scampia.
 Sacerdote dell’Opera guanelliana presso la chiesa del quartiere napoletano dal 1994 al 2010, sin dall’inizio il prete ha fatto scelte coraggiose. Come quella di rifiutare la somministrazione dei sacramenti ai camorristi, “perché Dio è Dio di vita – dice – non di violenza e morte”. Sedici anni di lotta per la legalità, condotti al fianco e insieme alla gente di Scampia, che don Aniello ha messo nero su bianco nel libro Dio è più forte della Camorra, scritto insieme al giornalista Andrea Manzi e pubblicato da Rizzoli.

Un’opera che lui stesso definisce “di denuncia, sì, ma anche di affermazione delle tante energie positive che ci sono. Il titolo dice già tutto”. Il prete che ha fatto la voce grossa con la Camorra, ma che ha saputo prendere per mano “tutti coloro disposti ad un percorso di conversione”, alle parole ha sempre anteposto i fatti. Poi un giorno, nonostante l’appello accorato dei cittadini della sua Scampia, è arrivato il trasferimento nel borghese quartiere romano del Trionfale. Ma neppure questo ha fermato don Aniello. Proprio qualche giorno fa, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il prete ha denunciato gli interessi economici delle cosche mafiose che si nascondono dietro le feste religiose. E in cantiere ha già un nuovo progetto di legalità: l’apertura di una struttura di accoglienza “per quelli che la società definisce gli ultimi”.

La sua è una battaglia portata avanti con i fatti.  Ai ragazzi dice di non credere a chi promette, ma di guardare a chi le cose le fa. Parla di esempi positivi da seguire. E cita Falcone e Borsellino. Loro sono stati abbandonati da quelle stesse istituzioni nel nome delle quali portavano avanti la loro battaglia. Sono passati vent’anni. Anche Lei ha combattuto. Ed è stato trasferito.
Aniello Manganiello.
Sì, è vero. Ma è vero anche che nonostante il modo di comportarsi delle istituzioni sia sempre lo stesso, quello, cioè, di una prudenza eccessiva, oltre misura, quello di evitare il più possibile noie e fastidi e di conservare uno status quo, è sempre maggiore, a mio avviso, il numero delle persone che sono disposte a rischiare per dare un contributo prezioso al cambiamento della società e alla lotta all’illegalità e alle mafie.

Io credo nelle persone. Il cambiamento è possibile, oltre a quello che possono fare le istituzioni, attraverso la conversione del singolo, del poliziotto, del vigile, dell’uomo dell’amministrazione. C’è bisogno di una moralizzazione, di una conversione, di ritrovare, per chi non lo abbia già fatto, i valori del rispetto,del sacrificio. L’importanza del rischiare per contrastare il male. La lotta alla tentazione che qualcuno si porta dentro di aggirare continuamente le difficoltà. La mentalità dell’illegalità, quella mentalità anche camorristica che si è generata, è diffusa. La democrazia è una bella parola che si dice, ma nel concreto non trova riscontro. La convinzione che si può ottenere quello che vogliamo senza meriti, ma per altre strade, rappresenta un ostacolo alla legalità. Allora bisogna partire dalla conversione del singolo.

La sua scelta di negare i sacramenti ai camorristi è stata sostenuta dalla Chiesa?
A.M.
Beh, loro erano distanti, erano a Roma. Mi sono sentito lasciato solo dai parroci della zona e dalle istituzioni ecclesiastiche del posto. Ma quando mi dicono che sono stato abbandonato, io dico no. Una parte della chiesa intesa come istituzione mi ha lasciato solo, ma io ho sempre avuto al mio fianco la comunità cristiana della gente.  Il mio non è mai stato un no a priori. Non c’è mai stata una chiusura totale, ma ci doveva essere dall’altra parte la volontà di intraprendere un percorso di conversione.

I sacramenti ai camorristi sì, ma la comunione alle persone divorziate e risposate no. Un paradosso.
A.M.
Quando mi trovo di fronte a persone divorziate risposate, provo una profonda sofferenza nel dovermi comportare in merito ai sacramenti come la Chiesa dice. Provo sofferenza a dover dire di no. L’augurio che farei è che la Chiesa guardi con maggiore maternità a queste persone. Là dove il matrimonio è finito per motivi non dipendenti da uno dei due, o per situazioni drammatiche, che la Chiesa sia più disponibile anche a dare l’annullamento, che non ci siano cause di annullamento che durano anni. Cioè che dia qualche spiraglio su questo punto, che diventi più attenta, più disponibile, per dare a tante persone la possibilità di vivere la fede con serenità. Sentirsi negati i sacramenti provoca in queste persone una frustrazione. Io ho visto gente piangere, un pianto fatto di sofferenza. Ce lo dobbiamo porre questo problema. Se non altro cominciare a esaminare caso per caso.

Nel libro non nasconde di aver pensato di abbandonare l’opera. Eppure poi è rimasto.
A.M.
Sono rimasto perché me lo ha chiesto la mia comunità parrocchiale, quella che era scesa per strada, quella che aveva contestato la scelta dei superiori (del trasferimento, n.d.r.). Quella che non è stata ascoltata dai superiori. Aniello, devi rimanere. Il tuo essere guanelliano sposato con il tuo carattere, con la tua personalità, ha dato i frutti che noi abbiamo avuto. Questo divorzio sarebbe un contro senso, ti priverebbe di un aspetto che è peculiare e funzionale al tuo sacerdozio e al tuo modo di agire.

Denunciare è sufficiente?
A.M.
No, la denuncia non basta. Nel mio libro metto a confronto l’antimafia dei professionisti della legalità e l’anticamorra delle opere. Sono necessarie tutte e due. Sono indispensabili. Se noi non eliminiamo la disperazione di quella gente, la povertà, il disagio, la disoccupazione, possiamo fare libri, possiamo fare le più grandi denunce, possiamo anche dire i nomi dei clan, ma non serve a niente. Ne arrestano 100 oggi, domani ne saltano fuori altri 300. Io nel libro dico: fede, cultura e lavoro.

 Che futuro vede per Scampia?
A.M.
A Scampia ci sono tante potenzialità, Dostoevskij diceva la bellezza salverà il mondo. Tante intelligenze, ma c’è bisogno di valorizzare le tante energie positive che ci sono. Bisogna sostenere le politiche sociali e poi investire in attività lavorative.

di Valeria Torre