Nei favolosi anni ’80 un serial killer terrorizza Roma e l’Italia: ha il volto coperto da una maschera con le sembianze di un cane, uccide le sue vittime a caso, cambia ogni volta l’arma e unico segno distintivo si firma col sangue con il nome di “cane pazzo”. Stiamo appunto parlando del film Canepazzo, esordio nel lungometraggio di David Petrucci.

Senza dubbio un tale spunto nello stantio panorama del cinema di genere italiano, ancor più nell’ambito del thriller, porta con sè molto coraggio e attira curiosità. L’insolita incursione nel territorio dei serial killer (sono più quelli presenti nella realtà rispetto a quelli nella storia del nostro cinema si direbbe) non poteva non avere vetrina più adatta del Festival del Cinema Indipendente: Il RIFF, giunto quest’anno alla sua undicesima edizione, ancora una volta con sede al Nuovo Cinema Aquila. Tale curiosità viene in parte appagata da una vera e propria immersione negli stilemi del thriller psicologico. Quello che Petrucci configura è infatti un vero e proprio labirinto mentale in cui il fulcro è l’ossessione al limite del patologico dell’investigatore nei confronti dell’assassino; una caccia all’uomo che diventa necessariamente una lotta con i propri fantasmi prima che col vero mostro. Canepazzo è dunque un viaggio nella psiche che, seppure servendosi consapevolmente di vari clichè (ricordando ad esempio tra i vari, il thriller contemporaneo più famoso ovvero I soliti sospetti), riesce senza dubbio ad essere affascinante. Non per via della morbosità dell’assassino o della sua caratterizzazione, che vengono invece messi in secondo piano, quanto per l’evocazione visiva di un sentimento di angoscia, violenza repressa e paura. Una scelta di “rappresentazione emotiva dei fatti” che in qualche modo finisce per penalizzare invece la vera e propria indagine che infatti è quasi assente, togliendo in qualche modo la classica gradualità del poliziesco. Gli stessi indizi disseminati sono talmente pochi, così come i personaggi coinvolti e dunque sospettati, che si viene a capire un po’ troppo facilmente chi sia l’assassino, ma mancando una vera e propria indagine latita in generale il fattore sorpresa nello spettatore. Detto di queste lacune, a cui si associano personaggi un po’ troppo vaghi e dei dialoghi talvolta prevedibili, permane comunque un’ idea di stile e una visionarietà non indifferenti nella pellicola di Petrucci. Le ricostruzioni ben congegnate e al limite dell’onirico degli omicidi ne sono senza dubbio l’espressione migliore. L’azzardo del genere, apprezzabile ancor più per gli evidenti limiti di budget del film, è coaudiuvato da un cast di ottima fattura: dai veterani Marco Bonetti, Franco Trevisi  e un ottimo Daniele Miglio, al giovane Gian Marco Tavani, fino alla comparsa in un piccolo ruolo di Franco Nero e un bel siparietto naif con Tinto Brass nei panni di un boss malavitoso. Vi è molto materiale curioso dunque per un film che si spera trovi la distribuzione che merita, permettendo così al serial killer con la maschera di cane di mostrare la sua follia a più spettatori possibile.