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  1. Supremazia del commercio estero tra le discipline    economiche, nell’epoca della globalizzazione. Si tratta di una costatazione ormai indubbia e comprovata dalle statistiche economiche. Il contributo delle esportazioni di beni e servizi alla formazione del PIL è infatti particolarmente significativo in Italia, attorno al 30%. Si era ridotto nel 2009 (24%) a seguito della crisi che ha notevolmente compromesso il volume degli scambi di tutte le aree geografiche del globo e poi ha ricominciato a crescere. Nel 2010 e, soprattutto, nel 2011 attestandosi al 28,9%. Secondo i dati Istat riguardanti i primi nove mesi del 2012, l’incidenza relativa ha superato il 30%. Ciò è confermato anche dall’analisi di Eurostat che prevede un ulteriore incremento per il biennio 2013 – 2014: si calcola, infatti, un contributo che dovrebbe superare – per la prima volta in assoluto – la soglia del 31%, raggiungendo il 31,2% nel corso del 2013 e il 32,3% durante il 2014. Dal 2010 le esportazioni di beni e servizi stanno quindi crescendo – in termini reali – in misura superiore rispetto alle altre componenti del PIL, fornendo di conseguenza il contributo maggiore alla crescita nazionale. In particolare, nel 2011, a fronte di un aumento delle vendite italiane all’estero del 6,7%, i consumi e gli investimenti hanno segnato addirittura una contrazione, rispettivamente, dello 0,1 e dell’1,3 per cento. Nel 2012, tra gennaio e settembre, a fronte di esportazioni cresciute su base tendenziale del 2%, consumi ed investimenti hanno subito una significativa decelerazione, pari – rispettivamente – al -3,3 ed al -9,1 per cento, a conferma della buona performance che sta attraversando il Made in Italy nel mondo e delle forti difficoltà che sta conoscendo il nostro mercato interno.

 

  1. Responsabilita’. L’Europa, ormai dal 1968, ha una politica commerciale comune e quindi prende le sue decisioni direttamente a Bruxelles, dove esiste una specifica DG della Commissione europea dedicata al commercio estero (DG Trade) ed un Consiglio dei Ministri del Commercio. Ciascuno Stato membro dell’UE, come l’Italia, deve pertanto dimostrare autorevolezza per inserire i propri interessi in un ambito molto articolato fatto da altri 26 Stati (tra poco 27 con la Croazia), la Commissione Europea e la co-decisione del Parlamento Europeo.
  2. Status. In materia di commercio estero le relazioni politiche sono fondamentali. E’ necessario avere, specialmente per un Paese votato all’export come l’Italia, un Ministro a tempo pieno – e non “occasionale” – che sia cosi’ in grado di poter incontrare e interagire con pari grado di altri Paesi. Notoriamente infatti un ministro straniero non accetta di avere rapporti con vicemnistri o sottosegretari, specialmente se non direttamente competenti ed esperti di commercio estero.
  3. Coordinamento. Senza una guida politica del commercio estero italiano si viene ad avere un vuoto di potere di coordinamento, ed in questo vuoto ogni entita’ che abbia un minimo di rapporti con l’estero si sente titolata a indicare posizioni che possono portare ad una reale “schizofrenia amministrativa”. Ed infatti attualmente oltre al Ministero dello sviluppo economico, dove sono confluite disorganicamente le competenze del soppresso dicastero del Commercio Estero (come la politica commerciale, la politica promozionale e l’attrazione di investimenti), si possono enumerare Ministero degli affari esteri (diplomazia commerciale), Ministero delle infrastrutture (trasporti, logistica, intermodalità), Ministero dell’economia (politica doganale), Ministero delle Politiche Agricole, Ministero della Salute, entità pubbliche (Agenzia ICE), entità private di proprietà in parte pubblica (SACE, SIMEST, INVITALIA), singole Regioni (a seguito della “riforma” del titolo V della Costituzione); senza contare le attività privatistiche dedicate all’export realizzate da federazioni come ad esempio Confindustria o Unioncamere. Contando le singole Regioni abbiamo oggi in Italia oltre una trentina di attori che si ritengono competenti a vario titolo nel commercio estero italiano le cui risorse economiche dedicate ad esempio a fiere, missioni all’estero e altri servizi non solo non si riescono facilmente a quantificare, ma senza dubbio appaiono mal spese. Se questa è la situazione appare improbabile attendersi una governance efficace ed è anche evidente quale possa essere lo spreco di risorse pubbliche. In tempi di spending review sarebbe piuttosto necessario operare una razionalizzazione del settore, con una strategia unitaria per il bene del Made in Italy. E’ ormai arrivata l’ora di scelte più moderne e radicali che sappiano fondere, o almeno coordinare, una volta per tutte, amministrazioni e centri di spesa oggi distinti e spesso scollegati tra loro.
  4. Assistenza. Questa confusione odierna crea non poco imbarazzo per le imprese, distogliendole dal vero obiettivo che è la necessità di essere ben sostenute dal sistema pubblico e messe così in condizione di fare business. In altre parole lo Stato dovrebbe essere il loro consulente, il loro export manager. Le imprese italiane, specialmente le piccole e medie, per restare competitive vanno “accompagnate” sempre di più all’estero. Non solo, ma è ormai provato che le imprese che internazionalizzano vanno meglio delle concorrenti (vedi il recente rapporto ISTAT sulla competitività). Ormai l’estero è per molte imprese una ragione di sopravvivenza, in quanto costrette ad esportare oltre metà del loro prodotto se non addirittura, in alcuni settori oggi debolissimi come ad esempio la nautica, quasi tutto quello che realizzano. Accompagnare le imprese significa, in buona sostanza, avere un Ministro del commercio Estero a tempo pieno in grado di viaggiare per aprire i mercati ed essere un simbolo, una bandiera per tutto il made in Italy.
  5. Tecnicita’. La materia del commercio estero e’ poi spesso difficile, piena di regole e prassi, oltre ad evidenziare la costante presenza della lingua inglese in molti ambiti. Su alcune materie non si puo’ certo improvvisare. La politica commerciale ad esempio spazia a 360 gradi in ambiti come l’accesso al mercato (dazi, ostacoli non tariffari); la regolamentazione internazionale dei servizi, degli appalti pubblici o della protezione degli investimenti; la difesa commerciale (antidumping, sovvenzioni illecite, salvaguardie); regole tecniche (standard industriali, fitosanitari). E lo fa su innumerevoli fronti : nei negoziati multilaterali e plurilaterali del WTO; nei negoziati bilaterali tra l’UE e Paesi come Canada, USA, Giappone, Corea, India, Singapore, Mercosur, Messico, Cile, ecc.; nei rapporti di cooperazione bilaterale – attraverso commissioni miste e altri strumenti simili – tra l’Italia e praticamente ogni Paese del globo. Si tratta di competenze che nei Paesi industrializzati ed emergenti, oggi competitori dell’Italia, vedono sempre una figura politica di ministro a tempo pieno, competente per il commercio, per attuarle in modo efficace.
  6. Personalita’. Il made in Italy e’ la forza industriale dell’Italia ed ha sempre di piu’ necessita’ di essere conosciuto e tutelato nel mondo. Made in Italy e’ un vero e proprio distintivo che puo’ continuare ad identificarsi con la qualita’ dei nostri prodotti e con lo stile di vita italiano. Ma per conservarlo intatto nel tempo occorre un apparato in grado di sostenerlo. Un ministero per il commercio estero puo’ fare proprio questo attraverso, ad esempio, la creazione di un marchio governativo “made in Italy” che sia, non solo garanzia di affidabilita’ per utilizzatori e consumatori, specialmente contro sue eventuali contraffazioni, ma allo stesso tempo marchio di visibilità e strumento di tutela del savoir faire italiano.

Fate presto !

Amedeo Teti