Il Nuovo Cinema Aquila continua ad essere una stimolante vetrina per quelle produzioni indipendenti italiane, spesso ricolme di idee, che non hanno molti altri spazi di visibilità né a Roma né altrove. In questo momento, tanto per dare il giusto rilievo al caso più recente, una delle tre salette del cinema dislocato al Pigneto ospita Sàmara, lungometraggio d’esordio di Massimo d’Orzi la cui distribuzione era rimasta a lungo bloccata; ed essendo oggi l’ultimo giorno di programmazione, almeno per il momento, il nostro è anche un caloroso invito a recuperare  quest’opera cinematografica piena di freschezza, vitalità e felici intuizioni. Un’opera datata peraltro 2009. Ci sembra giusto sottolinearlo anche perché, quando abbiamo avuto occasione di incontrare il cast alla “prima” di lunedì 19 marzo, faceva un certo effetto vedere quanti centimetri d’altezza in più può ora vantare, rispetto al periodo delle riprese, il giovanissimo interprete Denis Bejzaku; e la crescita naturale dell’attore/bambino, parso poi così a suo agio sullo schermo, ci è sembrata ad un tratto la metafora perfetta di certo cinema indipendente realizzato nel nostro paese: un cinema che tende sovente ad “invecchiare” lontano dal suo naturale destinatario, il pubblico, facendosi poi trovare all’appuntamento con in dote un’insospettabile vivacità, quando infine gli viene offerta una chance.

Per entrare nel merito, Sàmara è anche un esempio non così comune di quel cinema surreale, poetico o comunque estraneo alle più trite logiche produttive, che non sono poi tanti a praticare in un’Italia dominata al botteghino dal grigio conformismo dei cine-panettoni o, al massimo, di qualche vuota pellicola pseudo-generazionale dallo stucchevole retrogusto mucciniano. Quello diretto da Massimo D’orzi, cineasta con valide esperienze in ambito documentario (suo, ad esempio, Adisa o la storia dei mille anni), è al contrario un film dalle atmosfere vaghe, oniriche, la cui impronta può ricordare alla lontana il cinema di un Fellini o di Raoul Ruiz, senza però che venga mai a mancare un timbro originale, sincero, persino umile. Ne è protagonista Luis (interpretato da Filippo Trojano), saltimbanco apparentemente privo di particolari talenti che un giorno decide di addentrarsi nella più fitta boscaglia, pensando sia la via giusta per raggiungere un luogo misterioso, Sàmara, dove si dice possano essere realizzati i sogni degli artisti. Ma come spesso accade nei film “on the road” non è tanto la meta, quanto piuttosto il percorso da compiere, la chiave di volta dell’opera. Ed è quindi il susseguirsi di stravaganti incontri nel bosco a forgiare il protagonista, costringendolo poco alla volta a riconsiderare i propri obiettivi. Proprio l’incontro con la bella Rosita, inpersonata con grazia da una Federica Pulvirenti che ha talento da vendere, risulterà determinante per il cambiamento di lui; ed in una delle frasi più folgoranti della ragazza si può magari intravvedere il senso generale del viaggio, e quindi del racconto stesso: “Il bosco avrebbe dovuto insegnarti che prima del cielo ci sono le chiome degli alberi”

Parafrasando il titolo di un horror realizzato anni fa da Gabriele Albanesi, Il bosco fuori, qui è “il bosco dentro” a parlare, o per meglio dire è quanto accade dentro al bosco ad esercitare un’attrazione profonda sullo  spaesato protagonista come anche sullo spettatore. Il film di D’orzi perde  semmai un po’ di mordente nella parentesi cittadina per poi riprendere fascino, incisività, nelle scene sulla spiaggia, ideale epilogo di un itinerario sognante e rapsodico che conserva sempre un’intima aderenza ai luoghi  attraversati. Affinché ciò fosse possibile grande è stato il contributo di Manuel Ribaudo, direttore della fotografia giovane come una parte rilevante del cast tecnico, ed ispirato al pari del regista nella ricerca di quei tagli di luce, di quelle ombre, di quelle leggere sporcature della messa a fuoco in grado di rendere sanguigno e per niente leccato l’appeal visivo del lungometraggio. Pur con le piccole stonature riscontrabili quasi sempre in un’opera prima, anche l’impronta filosofica e liricheggiante dei dialoghi rema in questa direzione, grazie poi alla bravura di quegli interpreti (particolarmente apprezzabile, anche qui, l’impegno della Pulvirenti) che non appesantiscono mai il testo con un’enfasi eccessiva, soppesando semmai le parole con un’innocenza, con quella scarna e primigenia naturalezza, da cui esse sembrano acquisire una densità quasi materica. Fondendosi così coi rumori di fondo della foresta. Abbiamo citato più volte la giovanissima e promettente protagonista, ma ci sarebbe da dire che il buon esito di Sàmara si deve pure ad una serie di contributi al femminile, altrettanto degni di elogio: dal montaggio fluido di Paola Traverso ai brani musicali composti da una sorprendente Stefania Tallini, dalla ricerca costumistica e scenografica di Danila del Percio fino agli sforzi in fase produttiva dello staff coordinato da Sara Sergi; sforzi che hanno portato, tra l’altro, ad individuare quelle location del centro- Italia che costituiscono per il film un valore aggiunto, vista la necessità di far respirare il racconto e i personaggi in determinati ambienti naturali.