Valentina che porterà la bandiera italiana durante l’interminabile sfilata degli atleti all’apertura dei Giochi di Londra sarà la quarta donna azzurra a farlo: Miranda Cicognani, ginnasta, fu la prima nel1952 ad Helsinki, aveva paura di cadere e c’era vento; Sara Simeoni incedeva con le sue lunghe gambe che erano ali nel 1984 a Los Angeles; nel 1992 a Barcellona, toccò alla nemica, Giovanna Trillini. Valentina Vezzali, quella volta, era riserva in patria: chissà quanto avrà rosicato, dice di ricordare soltanto che mentre le azzurre del Dream Team del fioretto s’abbracciavano lei pensò «la prossima volta ci sarò anch’io»; se lo promise, se lo giurò, e ci fu.
Ora tocca a lei: ne ha tutti i numeri, giacché il suo palmarès chiede le pagine gialle. Cinque medaglie d’oro olimpiche, tre individuali in tre Olimpiadi di seguito, un record, e due di squadra, un argento e un bronzo, cioè ogni volta sul podio; 13 ori, cinque argenti e tre bronzi mondiali; 11 ori, 4 argenti e due bronzi europei. Da aggiungere la minutaglia da giunta per buon peso di 5 Universiadi e 2 Giochi del Mediterraneo vinti, 11 coppe del mondo, nelle quali ha vinto 78 tappe, 28 titoli italiani fra individuali e a squadre. Da avere più che una stanza un palazzo dei trofei per conservarli, compresi i resti della medaglia vincente di Lipsia che le sfuggì di mano frantumandosi in terra, ma che ne sapeva Valentina che non era d’oro ma di ceramica?
Già, i mondiali di Lipsia, 2005, anno speciale: Valentina era diventata mamma quattro mesi prima (Pietro, il bambino delle merendine dolci in tv, era nato il 9 giugno); la Vezzali aveva preso 20 chili nell’attesa, ma 18 giorni dopo il parto era tornata in pedana, il rettangolo che può farti alto come il Cristo del Corcovado o può essere un piccolo gradino ma più profondo della Fossa delle Marianne. Un mese e mezzo dopo aveva ritrovato il suo peso forma, lei che è alta 1,64 e pesa 53 chili, da bambina il classico del banale, uno scricciolo. Quella volta a Lipsia Pietro era rimasto a casa senza la mamma e senza una piccola tartaruga di pezza che Valentina s’era messa in borsa come portafortuna (ora le serve qualcosa di rosso: a Londra avrà le scarpette rosse).
Valentina doveva ripartire da zero, perché l’anno della gravidanza l’aveva cancellata dal ranking delle prime sedici. Ripartì, toccò una per una le avversarie, le infilzò una a una e l’ultima che si trovò di fronte era la tedesca Anja Muller; andò sotto 2 a 6, a 37 secondi dalla fine era 10 a 10. Ci volle l’extratime e quando stava per scadere la Vezzali ebbe la stoccata giusta. L’urlo fu quello di Tardelli al Mundial.
Il risultato fu quello di una vittoria sportiva ma non solo: cambiarono le regole, e da allora la gravidanza è considerata una specie di aspettativa (del resto è un’attesa) e quando torni da mamma ti ridanno il tuo posto. Toccare, stoccata: l’ambiguo linguaggio della scherma che le fece anche fare una celebre gaffe in un Porta a porta quando, senza pensarci, disse a Berlusconi «Presidente, da lei mi farei toccare», che lì per lì sembrò quello che non era. Qualcuno sostiene, ma ci credono in pochi, che fece arrossire il Cavaliere.
Il linguaggio della scherma lo aveva imparato da piccola, insieme con l’italiano, perché se sei un bambino, a Jesi, dov’è nata il 14 febbraio 1974, giorno di San Valentino, donde il nome di Maria Valentina, che altro fai se non tirare di scherma? O che altro facevi, a quei tempi, quando Valentina era l’unica femminuccia a fare sport, che era cosa da maschi, non come ora che finalmente tutti i più di 200 Paesi che saranno a Londra olimpica avranno almeno un paio di donne tra gli atleti, compresi i riluttanti dell’Arabia Saudita e del Qatar?
La Vezzali sognava di ballare (l’avrebbe poi fatto, un po’ legnosa a dirla tutta, a maggior gloria della tv in Ballando con le stelle) ma un giorno che la sorella Nathalie, che la praticava, andò in palestra, pure Valentina andò a curiosare. Aveva cinque anni, non ne è ancora uscita. Né c’è l’intenzione di farlo, perché a 38 anni ha detto: Londra, poi si vedrà. Ne sarebbe orgoglioso il maestro Triccoli, un omone con i baffi rossi come lo ricorda lei, che aveva imparato lo sport da prigioniero in Sudafrica e una volta tornato a Jesi aveva aperto una palestruccia piena di innovazioni mentali e inventato la fabbrica dell’oro che è Jesi.
L’hanno chiamata in mille modi, Valentina: cobra o mangusta; l’hanno vista indossare con la stessa eleganza il giubbetto elettrico e il tacco 12, ragazza completa, donna dei nostri tempi; l’hanno vista vincere (moltissimo) e perdere (pochissimo); l’hanno sentita dirsi orgogliosa di rappresentare «un Paese di uomini e donne che non si arrendono», e lei è di questi; ha potuto dire che «la scherma è come la vita, in pedana incontri avversari, nella vita avversità, e devi essere in grado di affrontarli», e lei lo fa. Poco importa chi ci sia dietro la maschera, la Trillini o la Di Francisca fa lo stesso: devi batterla. Perché, come le ha insegnato il papà che non c’è più e sempre le manca, «il secondo è il primo degli sconfitti». A dieci anni, in un campionato a Roma, Valentina vinse e subito dopo si ritrovò fra le braccia del papà che la fece volare. E lei vola, vola ancora. Ai mondiali di Catania 2011 si trovò ad affrontare Lee Kiefer, una americana di 17 anni: le sembrava una bambina. Perché così è la vita: passi da rottamatrice a rottamabile: lei lo ha fatto toccando sì, ma di fioretto.