Un film, quello di Seiler, che racconta l’intolleranza – talvolta persino la segregazione – subita dagli oltre 500mila italiani che, nel secondo dopoguerra, andarono a soddisfare il bisogno di forza lavoro dell’economia svizzera: trattati come un problema, come “non-cittadini”, come individui sporchi e pericolosi da una società che li “accolse” come un corpo estraneo.
Scriverà Max Frisch nella prefazione del libro di A. J. Seiler, Siamo italiani: “Un piccolo popolo dominatore si vede in pericolo: volevamo braccia e sono arrivati uomini“.
Applaudito dalla critica (così Lino Miccichè su L’Avanti: “(…) le lunghe sequele dei nomi alla stazione svizzera d’ingresso, le file dei lavoratori seminudi che attendono la visita, il rumore infernale delle macchine del benessere svizzero che essi muovono, e del loro ritrovarsi di uomini del sud nelle strade di Basilea come fossero la«piazza» di un paese meridionale italiano, sono fatti che Seiler dà appunto come tali con un apparente distacco, che ne è la forza, con una «oggettività» che ne diventa la segreta molla emozionale“), Siamo italiani è il primo capitolo di un dittico dedicato all’emigrazione italiana in Svizzera, che si completerà decenni più tardi con Il vento di settembre (2002, anche questo in programma nei prossimi giorni alla Festa di cinema del reale), indagine sulla cosiddetta “emigrazione di ritorno” vissuta quarant’anni dopo da chi ha deciso di lasciare la Svizzera per tornare ad Acquarica del Capo, nel Salento. Storie di anziani rientrati a casa dopo decenni di duro lavoro, che aspettano per tutto l’anno la visita dei figli rimasti in Svizzera, vivendo sulla propria pelle un nuovo, costante sradicamento. Perché lì come qui, spiega Tonuccio, «la distanza e il desiderio ti spezzano il cuore».