Coraggiosa scelta, una volta tanto, quella di distribuire in Italia un film come C’era una volta in Anatolia. Il film del turco Nuri Bilge Ceylan, Gran Premio della giuria a Cannes 2011, è apparentemente quella pellicola che tutto si può definire tranne che commerciale, almeno nel senso più canonico del termine. Anche considerando la poca voglia di rischiare dei distributori italiani, è davvero insolito, almeno in questi ultimi disgraziatissimi anni di cinema, trovare in sala un film di 165 minuti proveniente da una nazione non proprio da botteghino come la Turchia (Ozpetek non conta).

Su tratta di un film piuttosto insolito, a metà strada tra il noir e il road movie, in cui l’aggettivo più consono potrebbe essere “esistenziale”. Tre auto della polizia viaggiano di notte alla ricerca del cadavere di un uomo, ucciso da due assassini reoconfessi che affermano di aver seppellito il cadavere tra le lande desolate dell’Anatolia. Seguiamo dunque con  freddezza il racconto di questo viaggio fatto di chiacchiere tra poliziotti, tutti apparentemente poco coinvolti o disinvoltamente nel pieno del loro lavoro quotidiano, mentre sotto traccia permane il mistero di un omicidio non completamente motivato, nè spiegato nei suoi dettagli. I toni grotteschi ed ironici si insinuano in questa tragedia raggelata, in cui appare sempre più evidente come ognuno dei personaggi: dal magistrato, al medico legale, al capo poliziotto fino ai due assassini, appaia tormentato dal proprio passato, alle prese con la propria angoscia personale che il caso in questione ridesta. Sorprendentemente i 165 minuti scorrono con facilità e ci si lascia andare alle suggestioni interiori ed esteriori in una combinazione perfetta tra personalità chiuse nella propria cupezza, in assonanza con l’ aridità e l’ eternità evocate dalle brulle colline dell’Anatolia. La malinconia e i rimpianti avvolgono dunque tutti i personaggi, anche quelli minori, ben sottolineata dalle parole del capo poliziotto: “tornassi giovane non rimarrei più qui, partirei lontano, via da queste province dimenticate”. Stati d’animo ed atteggiamenti che ricordano da vicino un grande scrittore che ambientava i suoi racconti non lontano dai luoghi del film: parliamo di Anton Cechov e della Crimea (peraltro il protagonista del film è il medico, stessa professione dello scrittore russo nonchè di alcuni suoi personaggi), che in un ideale raccordo mentale e geografico si raggiungerebbe attraversando il Mar Nero per arrivare sull’altra sponda, quella settentrionale. Qualcuno potrà obiettare che si tratta di un noir, ben lontano da vene malinconiche come genere, e la presenza della morte ci ricondurrebbe necessariamente ad esso, ma il film di Ceylan usa l’indagine e il giallo chiaramente come un espediente per parlare di altro. Una costruzione quasi perfetta quella del regista di Le tre scimmie (anch’esso vincitore a Cannes del Gran premio della Giuria), in cui l’impasto tragicomico raggiunge il suo momento culminante quando il magistrato si ritrova a identificare il cadavere e a dettarne la relazione proprio sul luogo del ritrovamento. E davanti al morto, nel pieno del suo dovere ufficiale, l’uomo si lascia andare accennando ai presenti la sua somiglianza con Clark Gable suscitando una surreale ilarità. Una vanità e mancanza di rispetto che sembrano terribilmente umane, forse l’unico esorcismo efficace di fronte alla tragedia.