Fa un effetto strano, a tratti persino straziante, rivedere Lucio Dalla sul grande schermo poche settimane dopo la sua improvvisa, raggelante scomparsa; specialmente se si pensa che questo film, riscoperto da poco grazie a DISTRIBUZIONE INDIPENDENTE, è datato addirittura 2006. Tuttavia tale effetto su quei cronisti che prediligono fin troppo facili “scoop” può risultare anche insidioso: in conferenza stampa una giornalista, apparentemente ignara (al contrario di gran parte dei colleghi) del fatto che Quijote di Mimmo Paladino figura già da mesi nel listino di DINDI, ha provato ad alimentare sterili polemiche, avanzando il sospetto che potesse esserci qualcosa di strumentale e di sentimentalmente ricattatorio nel riproporre tale lavoro in un momento come questo. Ovviamente l’accenno di polemica si è spento nel giro di pochi istanti, essendo noto quasi a tutti che la decisione di riproporre in sala il lungometraggio era stata presa da tempo immemore. Mentre così i rappresentanti del cast artistico e tecnico presenti all’incontro hanno colto l’occasione per ribadire, al contrario, quanto fosse forte il vincolo di amicizia tra Lucio e alcuni tra i realizzatori del coraggioso progetto, sospeso tra la pura essenza cinematografica e le precedenti esperienze dell’autore. Già, perché sovraccaricando di significati la pur importante e generosa partecipazione di Dalla, si rischia peraltro di sottostimare altre significative circostanze: il regista Mimmo Paladino, ad esempio, pur non essendo così noto al grande pubblico rappresenta con la sua attività di pittore, scultore e scenografo una voce di spicco dell’arte italiana, con grandi riscontri all’estero. Ed il suo lavoro di trasfigurazione del Don Chisciotte di Cervantes si fa carico qui di istanze estremamente colte e di un desiderio di sperimentare sul linguaggio audio-visivo, i cui esiti coincidono con inquadrature cariche di suggestioni.
In questo vertiginoso riadattamento della poetica di Cervantes, le moderne pale eoliche sostituiscono i mulini a vento mentre gli aspri territori del Sannio, con certe costruzioni semi-diroccate rivelatesi “location” meravigliose, hanno buon gioco nell’ospitare la perigliosa ricerca esistenziale di Don Chisciotte e Sancho Panza, mirabilmente interpretati da Peppe Servillo e, per l’appunto, Lucio Dalla: un duo musicale, a ben vedere, che nelle sue peregrinazioni ha ben accompagnato la partitura ideata da Paladino, ottimo esordiente alla regia, intorno alla musicalità intrinseca delle voci, dei corpi e dei paesaggi. L’opera del genio spagnolo rivive, così, in una malinconica traslitterazione che tende continuamente allo straniamento, alla parafrasi in cui si fondono e si trasformano i diversi linguaggi artistici, dai curatissimi valori scenografici alle cifre stilistiche degli interpreti: oltre a quelle già citate, molte le presenze che danno lustro al film, limitiamoci pertanto a citare Alessandro Bergonzoni, Enzo Moscato, Remo Girone ed il poeta Edoardo Sanguineti, anche lui scomparso in tempi abbastanza recenti. Anzi, sarà pure blasfemia agli occhi dei cinefili più inquadrati, ma nelle forme stranianti ravvisate in Quijote ci è parso di intravvedere un riflesso della difficile poetica di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, decurtata però di quella pesantezza che attribuiamo talvolta alla coppia francofona. Il film di Paladino abbonda peraltro di citazioni cinematografiche, letterarie e di ambito figurativo. Da Borges a Bergman. Ed è proprio nell’incontro di Don Chisciotte e del fido scudiero Sancho con la Morte, impersonata da un Remo Girone intenso come suo solito, che questo omaggio al bergmaniano Il settimo sigillo si carica di aspetti ancor più sinistri ed emotivamente sconcertanti, per lo spettatore: il volto teso e l’espressione attenta di Dalla al cospetto della Morte, pochi anni prima del suo reale incontro con essa, non può che mettere i brividi. E del resto un grande francese l’aveva definito proprio così, il cinema: “la morte al lavoro”.