Personalmente lo attendevo al varco. Non avendolo potuto visionare alla Mostra del Cinema di Venezia, dove ha ricevuto anche il Premio Speciale della Giuria nella sezione ”Orizzonti”, aspettavo proprio un’occasione come quella offerta dal festival ravennate, per potermi confrontare con l’ultimo parto di Michael Glawogger, geniale cineasta austriaco. Ed è così che pure il pubblico del Mosaico d’Europa Film Fest ha potuto assaporare le immagini di indubbia incisività che Whore’s Glory propone, nel passare in rassegna alcune situazioni legate alla prostituzione in diverse aree del globo. L’andamento è rapsodico. Ma ciò che viene mostrato non è mai gratuito, casuale, risulta anzi ripreso e montato ad arte, fino a diventare emblematico. Per giunta le imprese di Glawogger produttivamente non sono mai facili, vista la sua tendenza a viaggiare in terre lontane per accumulare una serie di storie e di punti di vista, che siano funzionali all’esplorazione di un determinato tema. Senza mai la pretesa di essere esaustivo, ma con la capacità di essere penetrante. Quello che artisticamente provo per il cineasta austriaco è del resto un amore di vecchia data: la qualità del suo lavoro mi era risultata chiara quando, più di dieci anni fa, ebbi modo di vedere Megacities, documentario del 1998 in cui l’oggetto del discorso era la vita ai margini di quattro megalopoli, con le periferie di Bombay, Città del Messico, New York e Mosca poste vertiginosamente in primo piano. Quanto poi al suo film di maggiore impatto e respiro, Workingman’s Death (2005), il fatto che tratti con una simile robustezza visiva situazioni di lavoro pesante pescate in giro per il mondo mi aveva spinto, tempo fa, a proporlo quale film d’apertura per il cineforum sul tema dell’occupazione organizzato nella sede romana del PCL. Con reazioni energiche e indicative di un forte interesse, neanche a dirlo, da parte del pubblico ivi convenuto.

Ecco, proprio in relazione al rapporto tra potenza delle immagini e riflessioni che ne possono scaturire, si può forse dire che il tema del lavoro stesse a Workingman’s Death così come quello della prostituzione sta al più recente (2011) Whore’s Glory. Analogo l’interesse per gli aspetti più contraddittori della globalizzazione, analoghe certe scelte stilistiche, ma soprattutto analoga la volontà di suscitare tensioni etiche profonde senza scadere nel più bieco e ipocrita moralismo. Il film di Glawogger non è un programma televisivo con Don Mazzi in studio. Né le prostitute, né i clienti, né le altre figure rappresentate nel documentario sono oggetto di qualche discriminazione o di attitudini censorie, ma viene offerto loro uno spazio d’espressione tale da far emergere, in modo volutamente discontinuo e mai programmatico, la dimensione esistenziale di ciascun individuo. Sono tre le aree geografiche esplorate nel documentario di Michael Glawogger: Thailandia, Bangladesh e Messico. Nel segmento tailandese osserviamo le “ragazze in vetrina” di un bizzarro bordello chiamato “l’acquario”, locale frequentato da turisti del sesso sia stranieri che indigeni, dove le giovani prostitute esibiscono una certa disinvoltura, finanche ironica, rispetto alle regole di un luogo in cui tutto è rigidamente controllato e catalogato con un prezzo. Ci appare più caotica, disperata e a tratti violenta la vita delle prostitute nel segmento bengalese, ambientato in una zona a luci rosse le cui frequentatrici, accomunate dalla miseria economica, lasciano emergere nelle interviste una mentalità condizionata anche dal credo islamico, per cui certi atti sessuali vengono considerati impuri e altri no, quindi praticabili. La fisicità più esuberante regna invece in Messico, sia nel rapporto delle protagoniste coi propri corpi che nel culto dei tatuaggi di certi clienti, solo per fare qualche esempio. In tutto ciò, forte di una fotografia come sempre strepitosa, Michael Glawogger sa scavare nell’immaginario dei luoghi attraversati restituendo un valore mitopietico alle inquadrature più significative, ed agendo se necessario per contrasto: valga per tutti quello tra la robusta intensità di determinate scene e la voce raffinata di P.J. Harvey, un attrito da cui derivano momenti di grande pathos, per un film che vive anche della sensibilità a fior di pelle racchiusa nella colonna sonora.