Esce in sala oggi, 13 aprile, il film che ha già cominciato a far parlare di sé all’ultima Berlinale, dove ha avuto anche un riconoscimento importante nella sezione Panorama. Ci conforta il fatto che il riconoscimento in questione fosse il Premio del Pubblico e che sia arrivato in un importante festival internazionale, perché è giusto che di ciò che viene raccontato in Diaz – Don’t clean up this blood si continui a discutere non solo in Italia, dove la propaganda di regime e una reticenza diffusa hanno fatto danni spaventosi, ma anche e soprattutto all’estero.
Per almeno due motivi. Innanzitutto perché la feroce repressione poliziesca avvenuta a Genova nel 2001, con punte di efferatezza da “macelleria messicana” (termine usato da uno dei dirigenti di polizia successivamente chiamati a testimoniare) nel caso della scuola Diaz e di Bolzaneto, ha rappresentato senz’altro il punto più alto di quella “strategia di contenimento” delle rivendicazioni dal basso attuata in Italia con modalità scrupolosamente fascistoidi, ma ha offerto anche alle borghesie dei paesi occidentali  un modello pericoloso per analoghe repressioni  violente dei bisogni popolari. Ciò che sta accadendo in questi mesi nella Val Susa, con una specie di esercito schierato a difesa di poche lobby corrotte e dei loro discutibili interessi, dovrebbe far riflettere. E del resto, per tornare alle abominevoli torture subite da alcuni manifestanti italiani e stranieri contestualmente al G8 ligure, la gravità delle azioni compiute dalla polizia italiana ha poi spinto i rappresentanti di Amnesty International, la maggiore organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani, a definirla “La più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale”.

L’altro motivo per cui un film ben fatto sui vergognosi episodi accaduti alla Diaz e nella caserma di Bolzaneto, quale è a nostro avviso quello di Daniele Vicari, merita di riaprire un serrato dibattito sulle responsabilità dell’inaudita mattanza anche fuori dai confini italiani, corrisponde a una segreta speranza, e cioè quella che il clamore internazionale serva da pungolo per un’opinione pubblica italiana troppo mediocre, troppo conformista, ed anestetizzata da anni di bugie e tendenziose minimizzazioni dell’accaduto, andate in onda fino allo sfinimento nei salotti televisivi di Bruno Vespa, nei TG di Emilio Fede o in contesti analoghi. Che ciò si verifichi o meno, il film di Vicari (già autore di ottimi documentari come Il mio paese e di  pellicole comunque interessanti come Velocità massima e L’orizzonte degli eventi) un successo l’ha già ottenuto, quello di poter ballare sul filo di un magico equilibrio tra la cruda, scabrosa verosimiglianza cercata nel ricostruire gli eventi, ed un tentativo di creare pathos intorno a personaggi e situazioni tale da avvicinare il pubblico più giovane, che di quei fatti sa poco o nulla, senza che la spettacolarizzazione travalichi il confine del rispetto per chi quelle cose le ha subite davvero. Anzi, vedere i poliziotti che entrano alla Diaz spaccando teste, colpendo selvaggiamente chiunque capiti loro a tiro, infierendo sulle persone a terra fino a causare gravi danni fisici, avrà anche nel film una resa spaventosamente “splatter” ma corrisponde in pieno ai referti medici (quelli veri, non quelli posticci che la polizia tentò di ottenere per giustificare i propri uomini), alle testimonianze delle vittime, alle timide ammissioni di qualche poliziotto nauseato dal comportamento di gran parte dei propri colleghi. La coralità di un film che ruota intorno alla terribile notte della Diaz e alle altrettanto vili torture fisiche e psicologiche subite poi, in caserma, da gente arrestata senza alcun reale motivo, si avvale di volti più o meno noti tra cui quelli di Ignazio Oliva, Elio Germano, Jennifer Ulrich, Renato Scarpa, Duccio Camerini e tanti, tantissimi altri; ed è giusto, per un’opera che ha molteplici personaggi e punti di vista, che non vi sia un baricentro stabile ad esclusione del leitmotiv rappresentato, anche a livello simbolico, dal lancio in aria di una bottiglietta da parte dei manifestanti. Una bottiglietta di vetro che si frantumerà a terra senza colpire nulla. Mentre i colpi dei poliziotti su vittime scelte a casaccio, per compiacere gli ordini dei propri superiori e di certi politici davvero inqualificabili, invece, erano destinati a ben altra fortuna. Avrebbero segnato i corpi e la psiche di persone finite a Genova per reclamare un mondo migliore.