Sulla scia del successo di Shame (2011) e della coppia Steve McQueen/Michael Fassbender, arriva finalmente in sala l'esordio del regista, girato nel 2008 in Irlanda del Nord. Incentrato sulla coraggiosa quanto estrema protesta di settantacinque giovani detenuti nel famigerato Maze di Belfast, che decisero di lasciarsi morire d'inedia a turno nell'arco di un anno, il film è un'importante occasione di riflessione soprattutto nel nostro paese, dove sembra diventato addirittura difficile progettare insieme uno sciopero generale di sole quattro ore.

I 66 giorni di digiuno che portarono alla morte il cattolico Bobby Sands, militante della Provisional IRA nonchè membro del Parlamento di Westminster, avevano già ispirato gli autori di Una scelta d'amore (1996) e de Il silenzio dell'allodola (2005), ma il film del videoartista Mc Queen, oltre ad essere impeccabile dal punto di vista estetico, è innovativo per vari aspetti. Innanzitutto, a sottolineare che non si racconta la storia di un uomo isolato, ma la tragedia collettiva di un conflitto che attanaglia un'intera nazione, l'entrata in campo di Fassbender nei panni del protagonista arriva solo dopo che abbiamo visto la

travagliata quotidianità della guardia carceraria Raymond (Stuart Graham) e abbiamo conosciuto, attraverso i reclusi Davey e Gerry, gli orrori della vita fra le sbarre di quella prigione.

Di grande rilievo anche la struttura dei dialoghi: il lungometraggio è per lo più non parlato, ma quando giunge il faccia a faccia tra Padre Moran (Liam Cunningham) e Bobby, un fiume di parole analizza le ragioni della drammatica scelta senza ritorno che il primo chiama suicidio e il secondo omicidio. Dapprima i loro volti sono in penombra, poi, al rivelarsi delle rispettive posizioni e del diverso sentire di ciascuno, l'incontro-scontro diventa chiaro e frontale. Peccato che alcuni particolari, come la storia del puledro inventata di sana pianta dallo sceneggiatore Enda Walsh, e certi passaggi un po' troppo artificiosi rischino di minare l'autenticità del confronto.

In compenso, grazie ai tempi dilatati di talune scene e alla ricercata cura dei dettagli, qualche volta la visione del lungometraggio sembra sensoriale e si riescono addirittura a percepire gli odori.

Degna di nota, infine, l'indovinata e curiosamente speculare caratterizzazione dei genitori: quelli di Bobby amano il figlio di un amore profondamente rispettoso della libertà individuale e, pur non essendo mai possessivi, sono molto presenti e consapevoli; la mamma dell'agente Raymond, invece, è patologicamente assente e vegeta senza consapevolezza, con assoluta impotenza su tutto quello che le avviene intorno.

Lady L. Hawke

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