LA PRIMA RIVOLTA E’ L’IMMAGINE

 

“Gli zingari, popolo autenticamente eletto, non portano la responsabilità di alcun evento e di alcuna istituzione. Essi hanno trionfato sulla terra per la loro attenzione di non fondarvi niente.”

Emil CioranSillogismi dell’amarezza

 

Sono essenzialmente due i motivi, per cui ho voluto introdurre la lunga ed intensa conversazione avuta con Massimo D’orzi, regista cinematografico e teatrale, citando un aforisma dello scrittore rumeno Emil Cioran. Il primo è che questa gemma, contenuta negli straordinari “sillogismi dell’amarezza”, mi era venuta subito in mente vedendo Adisa o la storia dei mille anni: il bel documentario girato da Massimo D’orzi presso le famiglie Rom di un territorio, la Bosnia, devastato poco tempo prima dalla guerra. Il secondo motivo, senz’altro più futile, è che il regista non è stato affatto avaro di citazioni, nel corso dell’intervista, il che mi ha suggerito di portarne in dono un’altra io stesso. Il resto è quanto ci siamo detti in seguito a una curiosità nei confronti del cinema di Massimo che è nata in un momento ben preciso, e cioè dopo la visione di Sàmara, suo primo lungometraggio di fiction dai tratti ancora deliziosamente acerbi, ma già dotato di uno sguardo libero e originale.

 

 So che nella tua formazione artistica ha avuto un ruolo importante il teatro. Puoi parlarci di queste prime esperienze?

Durante l’adolescenza, fra i quindici e i sedici anni, mi innamorai del cinema. Fu una folgorazione vedendo in particolare due film, Il grido di Antonioni e Diavolo in corpo di Bellocchio/Fagioli.
Quell’incredibile fascino e mistero che esercitarono in me quei due film ancora permane. Per certi versi in quell’arco di tempo, trent’anni, fra il ‘56 del primo film e il 1986 del secondo, c’è tutta la mia ricerca di questi anni, direi la mia formazione. Beh, allora andavo a scuola e il cinema lo vedevo ancora come un mondo lontano. Cominciai a fare teatro per necessità di rappresentazione, quella stessa che poi ho ritrovato sempre quando ho voluto mettere in scena qualcosa, un testo classico, un documentario, un film di finzione.
Alla base c’è per me questa necessità, in certi casi urgenza di rappresentare, di fare immagini, di trasformare la realtà in immagine e rappresentazione. La cosa, quindi è passata da vari momenti: in teatro avevo il tempo lungo della rappresentazione, ma mi mancavano le angolazioni, i punti di vista e quello strano e formidabile rapporto con la realtà e il tempo che il teatro non ha! In quegli anni ho fatto tre spettacoli, Morti senza tomba di Sartre sull’ambiguità della resistenza francese, Una specie di storia d’amore, atto unico di A. Miller in cui ripercorre trasfigurandolo il suo rapporto con Marilyn Monroe e Esuli di Joyce, questo dramma “all’Antonioni” che mi aveva molto intrigato. Ultimamente ho rifatto teatro stimolato da una grande attrice, Angela Antonini, che mi ha chiesto di fare la regia di due spettacoli di cui lei era attrice sola, un adattamento della Tempesta di Shakespeare e Solaris di Lem.

In quali circostanze si è sviluppata, produttivamente e come esperienza di vita, la realizzazione del documentario “Adisa o la storia dei mille anni”? Avevi già avuto contatti con la cultura Rom e con la tormentata storia dell’ex Yugoslavia?

E’ stata un’autentica avventura. Adisa come dico sempre, è la mia scuola di cinema; è anche la scoperta delle immagini, è quella lotta d’amore, quel duello al sole che il regista fa con la realtà e con se stesso, con il tempo naturale che diventa tempo interiore, musica. Con Adisa mi sono formato come regista. E anche come uomo è stata una scoperta eccezionale.
Volevo dire da che parte stavo, volevo dire che il cinema è una sfida, volevo trovare immagini uniche ed originali e le ho cercate nel popolo Rom, fra coloro che sfidano da secoli la nostra civiltà, l’onnipotenza del nostro pensiero, la certezza di avere la ragione dalla nostra parte, quel delirio inconfessato di pensare che tutto ciò che è diverso da noi non appartiene al genere umano, è cacciato fuori. E’ stato per questo che ho voluto cominciare così, sulle tracce di un popolo che non lascia tracce, “rubare” immagini a coloro che non hanno pinacoteche musei collezioni gallerie. Mi portava più vicino a quell’essere artista che nessuna accademia, nessuna scuola può darti, che è quella formazione umana e personale frutto di scelte anche estreme e coraggiose senza le quali un regista, un artista non può esistere. Ecco oggi nel cinema è questo ciò che manca anche fra coloro che si dicono alternativi. Conoscevo la realtà dell’ex-Jugoslavia per esserci stato nel 1996 ad accompagnare un uomo buono che cercava di sanare una ferita immane con un batuffolo di cotone. Il delirio religioso!! Quando mi è stata data la possibilità sono tornato in quella terra bellissima che è la Bosnia per raccontare quella tragedia dal punto di vista di chi l’aveva  vissuta senza le armi della religione e del nazionalismo.

Nel tuo percorso registico lo spazio occupato dai documentari è risultato, almeno fino ad ora, preponderante: di “Adisa o la storia dei mille anni” mi è particolarmente piaciuta la sensibilità, l’armonia nel far fluire i racconti dei personaggi, lasciando però spazio a lunghi frammenti in cui sono soltanto le immagini a parlare. Come hai lavorato a questo equilibrio?

Considero il mio lavoro come un’unica grande ricerca. In questo periodo, anche per le tante sollecitazioni, per gli stimoli, sto riflettendo sul lavoro fatto in questi anni; e ho sentito molto, per esempio, il passaggio fra documentario e film di finzione, nonostante i miei lavori anche documentaristici abbiano molto poco del documentario classico in cui il ruolo dell’immagine è secondario se non pressoché assente.
Sinceramente non ho una grande cultura documentaristica, ho amato Nanook di Flaherty e Gente del Po di Antonioni, i documentari di Herzog, i documentaristi inglesi degli anni Trenta, ma soprattutto la mia attenzione va ai sovietici degli anni venti. E’ lì che si compie il salto. Di quegli autori mi ha sempre affascinato quella tensione umana tesa alla ricerca di un linguaggio nuovo, quel fondere teoria e pratica, realtà e rappresentazione, possibilità espressive sempre nuove.  Una grande fucina. Un regista deve aspirare a trovare una propria originalità, deve conoscere la storia dell’arte e del cinema, ma allo stesso tempo, pensare di essere il primo uomo che fa immagini. Trovare quella solitudine del primo uomo o della prima donna, che circa quaranta mila anni fa trovò il coraggio di separarsi dall’indistinto per fare le prime immagini nelle grotte, cogliere un latente che era emerso nell’uomo e riuscire a rappresentarlo. E’ straordinario. E ogni volta che noi assistiamo a queste rivoluzioni nella storia dell’arte, penso alle pitture rupestri, ma anche all’opera di Giotto, Leonardo, Caravaggio, Van Gogh, Picasso, Pollock, Eisenstein, Welles, Antonioni, Buñuel, Herzog, noi sappiamo che hanno avuto il coraggio, la capacità di quel primo uomo, di quella prima donna, che nella precarietà di una vita fatta di sopravvivenza, pericolo quotidiano, hanno saputo realizzare qualcosa che è esclusivamente umano, come l’invenzione di immagini nuove. Una rivolta fatta con le immagini. Splendido!! Se noi studiamo bene quelle pitture, ci accorgiamo come quel passaggio dal realismo a qualcosa di più astratto sia una caratteristica che ritroviamo spesso nella storia dell’arte, anche per esempio nel nostro dopo guerra dal neorealismo fino a film come Blow up in cui questa ricerca è straordinariamente importante e ben visibile. In Adisa si può leggere bene la mia convinzione rispetto alla forza delle immagini e a quanto  possano esprimere e raccontare. Questo film che poteva essere un reportage classico di denuncia delle condizioni di un gruppo di Rom all’interno della ex-Jugoslavia, finisce invece per toccare dimensioni più profonde, al di là di del problema del singolo gruppo o comunità circoscritta in un tempo e uno spazio, ma appunto un film che parla della storia del popolo Rom, della loro idea del tempo, per esempio, e del nostro modo di “guardarli”.

Con un documentario classico in cui avrebbero prevalso le interviste e le testimonianze non sarei mai riuscito ad ottenere questo risultato, ma soprattutto lì ho compreso che nel cinema le immagini hanno la possibilità di esprimere qualcosa di più universale, anche laddove le parole non arrivano. Il risultato dell’armonia di cui parli, della composizione del film, è nato al montaggio. Come dico nel libro Adisa o la storia dei mille anni che accompagna il dvd uscito a marzo per Infinito Edizioni, avevo rubato perle di tempo ai figli del vento, si trattava di montarlo su una collana preziosa. Il lavoro della montatrice Paola Traverso è stato straordinario.

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Quali sono gli autori e i modelli di documentario cui ti ispiri?

Come ho detto prima soprattutto i sovietici, soprattutto Eisenstein, che geniale qual era non poteva che finire per confliggere con il Moloch sovietico che voleva livellare tutto con il rullo compressore. E i comunisti ancora questo vizietto non l’hanno perso. C’è un cortometraggio geniale, di un giovanissimo Andrej Tarkovskij che lo racconta molto bene, il titolo è Il rullo compressore e il violino. Spesso cito Il vecchio e il nuovo di Eisenstein per raccontare della genialità di un artista e della ottusità di certi politici, di quegli uomini lucidi e razionali, che non hanno nessuna sensibilità prima che artistica direi umana. Stalin gliela fece pagare per tutta la vita ad Eisenstein quella sua genialità.
Coloro che fanno immagini propongono qualcosa di nuovo quando non si limitano a fare da specchio alla natura. E Eisenstein lo racconta bene quando nei suoi  scritti comincia a parlare di linguaggio interiore.

“Sàmara” è stato invece il tuo primo lungometraggio di fiction. Come ci sei arrivato e quali sono state le difficoltà maggiori nel realizzarlo?

Sàmara è stata la mia personale rivolta contro dei piccoli Stalin in miniatura. Stavo tentando di realizzare un film a Firenze, e sembrava tutto fatto, quando non si sa perché il film fu bloccato. Beh, dopo essermi ripreso, pensai a questa storia, non so quanta suggestione venne dalla lettura del Barone rampante di Calvino, insomma mi sentivo un po’ come fra i personaggi del periodo blu e rosa di Picasso, qualcosa che assomigliava ad una malinconia profonda con gli spiragli di un rosa nascente dato dai saltimbanchi, da figure che propongono una libertà, un essere artisti fuori dalle convenzioni, e dai calcoli dei lacché di corte. Il personaggio che uscì fuori, questo Luis il saltimbanco, però non aveva nessuna dote apparente, nessuna qualità artistica, si mette in viaggio pericolosamente in cerca di se stesso con una confusione e un vuoto che non presagiscono niente di buono. C’è in Luis, anche inconsapevolmente, quella ricerca dell’essere, quel tentativo di realizzare se stesso, ma non sa realmente da che parte cominciare. Poi avviene la prima svolta, la conoscenza di Rosita a cui si aggiunge presto il piccolo Morito. Ecco che la storia può cominciare con un corso diverso, ma allo stesso tempo i guai cominciano proprio da questo momento. Insomma una storia che ha molti livelli, così spesso dicono gli spettatori e i critici. Un film particolare  perché non è l’ennesima copia della copia della copia. Pone qualche domanda, fa fare qualche pensiero su se stessi. Dal punto di vista produttivo va da sé che è la storia di tutti i film indipendenti, per cui l’arte sta nel trovare l’unica vera grande risorsa: i giusti collaboratori.

Sia in “Adisa o la storia dei mille anni” che in “Sàmara” si nota una particolare attenzione per la componente fotografica. Particolarmente fascinose, specialmente nel primo, sono le sequenze notturne. Mi potresti dire come curi questo aspetto, così importante per ciò che riguarda lo specifico cinematografico?

Un film nasce da un’immagine spesso molto profonda dell’autore. Qualcosa che si sviluppa in una storia apparente ma capita che lo stesso autore la ignori a lungo. Credo fermamente che quando vedi un film di Buñuel, Antonioni, Kurosawa, Welles o Herzog tu non hai bisogno di sentire i dialoghi o conoscere la storia del film per riconoscere le loro immagini, le loro idee, le loro visioni. Eppure le macchine da presa sono più o meno le stesse per tutti. Che cosa cambia? Che cosa fa dire che quello è un film di Antonioni o di Buñuel? La loro capacità e originalità di fare immagini. Il cinema è linguaggio delle immagini.
Io, nel mio piccolo, quando giro non sto molto a pensare a quanto bella debba essere la fotografia di un film, ci sono molti film con una bella fotografia ma totalmente insignificanti. Occorre che l’immagine esprima qualcosa e l’immagine cinematografica è fatta di colori, luci ed ombre, disposizione degli attori, lavoro scenografico, tutto questo concorre a fare un’immagine cinematografica.
Spesso però in un autore tutto questo avviene in modo del tutto intuitivo, non così pensato e fissato a priori. O meglio ci sono autori dell’una e dell’altra specie. Io appartengo più a coloro che sono molto attenti alla composizione dell’inquadratura ma non predispongono tutto prima meticolosamente, l’inquadratura la devo trovare sul set, non riesco a fare un lavoro ferreo come per esempio facevano Kubrick e Hitchcock. Quando iniziammo le riprese di Adisa, per esempio,  dovetti decidere in una notte se andare a girare all’alba o aspettare il tramonto. Scelsi questa seconda ipotesi quando pensai ai Mangiatori di patate di Van Gogh, a quegli uomini intorno ad un tavolo rischiarati solo dalla luce di una lampada. Il film partì così!

 

“Sàmara” introduce lo spettatore a un mondo onirico, poetico, per certi versi adolescenziale. Cosa volevi rappresentare di te e con quali autori del passato o a te contemporanei, simili magari nel praticare un cinema di poesia, avverti una vicinanza maggiore?

Sì è vero! C’è qualcosa di ingenuo, adolescenziale in Sàmara che mi piace molto. Forse volevo ritrovare quella ingenuità, quella purezza che ho perso quando ho cominciato a vedere troppi film rischiando di diventare troppo intellettuale e cerebrale perdendo passione e umanità nei confronti degli altri. Io amo il film come viaggio. Per questo mi piacciono gli autori che ho già citato. In Sàmara occhio attento può scorgere Il porto delle nebbie di Marcel Carné, un film che io amo molto, ben scritto da Prevert; può vedere Il Grido questo lungo peregrinare in cerca di un volto di donna, può scorgere la tensione artistica di Andrej Rubliov nella ricerca delle immagini, può trovare lo smarrimento di K. nel Processo di Welles. Può, qualcuno me lo ha fatto notare, trovare l’ingenuità di Karpar Hauser. Ma forse è riconoscibile quel momento di grande cinema che è stato il rapporto fra Bellocchio e Massimo Fagioli che ha portato alla realizzazione di tre grandi film come Diavolo in corpo, La condanna e Il sogno della farfalla e il lavoro successivo che lo stesso Fagioli ha svolto sul linguaggio cinematografico. Lì, come nei momenti rivoluzionari, abbiamo assistito oltre che alla realizzazione di quelle opere cinematografiche, anche a grandi teorizzazioni sulle immagini cinematografiche, penso alla definizione di Fagioli “immagine inconscia non onirica” che ci vorranno anni per realizzarla pienamente. Di tutto questo io sono totalmente debitore. Fra gli autori contemporanei, mi piacciono molto Reygadas, Kaplanoglou, Jessica Hausner, alcune cose di Tony Gatlif. Gli italiani in questo momento storico, in generale, hanno poco coraggio.

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Un rischio di “Sàmara” è senz’altro l’attrito tra la freschezza delle riprese e il tono letterario di alcuni dialoghi, rischio che a volte si traduce nell’impaccio percepibile in qualche scena, ma che in diverse occasioni la spontaneità e la disinvoltura dei giovani attori hanno saputo compensare efficacemente, contribuendo così a generare qualche genuina emozione. Come ti sei trovato a lavorare con loro?

Nella sceneggiatura ho forzato un po’ la mano, ma potevo permettermelo visto l’antinaturalismo di partenza, per cui potevo chiedere allo spettatore, se ti va seguimi, ma ti devi fidare anche quando le tue orecchie strideranno e i tuoi occhi faranno fatica a vedere. Ci sono dialoghi tipo “Sei la più bella scopata della mia vita” a cui lei risponde “tutto qui?”, o “la tua realizzazione sono io, qui ed ora” o ancora “il bosco avrebbe dovuto insegnarti che prima del cielo ci sono le chiome degli alberi” o anche il dialogo fra Il Bruno e i nostri tre protagonisti che potrebbe risultare troppo letterari. Ma il film forza le maglie della narrazione un po’ ovunque: lo fa visivamente nei forti scuri, lo fa  dilatando il tempo di ogni sequenza oltre i canoni stabiliti, lo fa nella recitazione degli attori.

Era il rischio da correre quando mi sono avventurato senza troppe certezze nel bosco sottoponendo gli attori ad una prova non facile. Io non amo troppo parlare con gli attori, detesto quegli attori che vogliono sapere le motivazioni di ogni singolo gesto. Questi attori mi annoiano oltre misura. Gli attori devono essere portati ad un livello di naturalezza inconsapevole, in cui hanno la sensazione di muoversi liberamente anche se è affatto diverso. Per fortuna, anche grazie al lavoro di casting fatto con la  produttrice Sara Sergi, gli attori sono tutti nel personaggio, io non riuscirei a vedere nessun altro nella parte di Luis se non Filippo Trojano, in quella di Rosita Federica Pulvirenti, Morito Dennis Bejzaku, Marco Baliani in quella del Bruno, Irina Vaganova in quella della Bionda di città e questo vale per tutti gli altri.

 

Mi puoi parlare in breve dei lavori realizzati dopo “Sàmara”, per esempio “Ribelli!”, e dei progetti che stai portando avanti attualmente?

Ribelli! nonostante sia un film su commissione è un lavoro estremamente importante per me. E’ un viaggio nella memoria, per comprendere le ragioni di una rivolta, trovare il diamante della ribellione, una ribellione, quale fu quella al nazifascismo da parte di alcuni ragazzi, i partigiani chiamati i ribelli, giusta, sacrosanta, vincente e che ha rappresentato storicamente e culturalmente un momento altissimo della nostra storia, non solo italiana. Dalla Resistenza è nata una cultura estremamente ricca nel dopoguerra che chi fa cinema dovrebbe conoscere molto profondamente. E non mi riferisco solo agli anni del neorealismo ma soprattutto agli anni successivi, dove si tentò di andare oltre la rappresentazione materiale di quella tragedia.

Nel 2011 è uscito Ombre di luce, un viaggio nella conoscenza: la realtà universitaria vista per la prima volta dall’interno. Un originale corso di scrittura svela immagini e pensieri di un gruppo di studenti mentre l’ultima contestazione dell’Onda scuote un’Università giunta al suo capolinea. Girato interamente dentro La Sapienza di Roma con un gruppo di studenti e due docenti veramente originali per metodo e prassi, Annio Stasi e Mery Tortolini.

Per quanto riguarda il mio lavoro attuale spero di realizzare tutti e tre i progetti a cui sto lavorando. Un film sulla vita e l’opera del geniale musicista e compositore brasiliano Guinga, un film documentario tratto dal libro di Luca Leone Bosnia Express, e il nuovo soggetto da me scritto dal titolo provvisorio L’inganno che dopo l’estate dovrebbe entrare in produzione