La critica italiana, specialmente quella più giovane, nell’analizzare le ultime opere di Paolo e Vittorio Taviani si è spesso soffermata sulle forme para-televisive, irrigidite e maggiormente convenzionali, almeno nella messa in scena, che il loro cinema ha di recente acquisito. Eppure, persino in un film come La masseria delle allodole che in parte vantava tali requisiti, si poteva già avvertire il ritorno di una curiosità, di una freschezza di intenzioni, di un’innocenza dello sguardo commisurate all’importanza del tema portato sullo schermo. Nel rievocare la tragedia di un popolo armeno reso oggetto, agli inizi del novecento, del crudele genocidio perpetrato dai turchi, i Taviani avevano forse raggiunto la temperatura di fusione ideale della loro esperienza cinematografica, sospesa per un istante tra le tensioni ideali degli anni ’70 e la minore audacia espressiva dell’ultimo periodo: difatti a scene più spente, da sceneggiato televisivo, si accompagnavano sequenze capaci di assurgere a un profondo valore mitopoietico, come quelle in cui erano condensate le sofferenze e le privazioni inflitte alle donne armene nella loro lunga marcia verso la morte. Con Cesare deve morire, pellicola che ha trionfato all’ultima Berlinale, tutti questi discorsi paiono all’improvviso superati. Come se il loro cinema avesse compiuto un balzo nell’iper-spazio. Chiunque vada a vedere il film convinto di confrontarsi con le semplici riprese, magari genuine e ben fatte ma limitate alla documentazione di uno spettacolo teatrale realizzato in carcere, resterà sconcertato. Cesare deve morire è molto di più. Certo, è innegabile che il Giulio Cesare di Shakespeare messo in scena a Rebibbia da Fabio Cavalli, con una maestria mirabilmente assecondata da Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Juan Dario Bonetti e da altri detenuti o ex detenuti che hanno ritrovato la loro anima nel teatro, possieda di suo una dirompente forza evocativa. Le parlate dialettali della Sicilia, della Campania o del Lazio, associate a quei volti vissuti, producono già un salutare straniamento che carica il testo di nuovi significati. Ma queste potenzialità sono state poi perfettamente intuite e rielaborate dai Taviani stessi, duo che lavora con passione, e che sa all’occorrenza scavare nella profondità di un’immagine. Coadiuvati così da Simone Zampagni, un direttore della fotografia in grado di far scivolare il film dal bianco e nero al colore in modo mai banale, mai leccato, i due registi hanno incastonato l’intensità già racchiusa nei volti, nei corpi e nelle voci dei protagonisti, in un gioco più complesso, nel fine labirinto di specchi in cui la realtà e la sua rappresentazione si rincorrono continuamente. Ne è un sublime esempio la sequenza dei provini, il cui accorto montaggio rivela, amplificate, la poetica e l’assai consapevole sostrato politico dell’opera dei Taviani: quei brevi monologhi recitati dai carcerati per ottenere la loro parte nel Giulio Cesare vanno oltre la mera funzione di audizioni, distillano invece l’essenza della loro posizione di prigionieri ed il ricordo di un passato violento, la loro sensibilità e quel vigore a stento compresso dalle sbarre. Da questo momento in poi i vivaci confronti tra detenuti/attori non potranno certo apparire il normale “backstage” di uno spettacolo, quanto piuttosto la mediata, studiatissima e comunque sincera messa in scena delle loro emozioni e della loro condizione umana.