Una nazione dove si vive sempre più a lungo e in buona salute (gli uomini vivono in media 79,4 anni e le donne 84,5), anche se si continuano a fare pochi figli (1,42 per donna) e sempre più tardi, e le disuguaglianze tra generi non accennano a finire (soprattutto per quanto riguarda i redditi). Un popolo meno formica a causa della crisi, che esce sempre più tardi dalla famiglia (il 40 per cento tra i 25 e i 34 anni sta ancora a casa con mamma e papà) e con una mobilità sociale praticamente bloccata. Un paese dove la quota degli immigrati è sempre più elevata (6,3 ogni cento residenti), dove si consuma più suolo che nel resto d’Europa e dove i Neet (ovvero i giovani che non studiano e non lavorano) hanno raggiunto quota 2,1 milioni. Un paese ancora una volta diviso tra Nord e Sud, soprattutto per quanto riguarda i servizi ai cittadini. Il tutto sullo sfondo di una crisi che non accenna a finire e della «brusca frenata» dell’economia italiana, che si riflette in un accresciuto rischio di credit crunch soprattutto per le Pmi.

In quest’ottica, sono tante le analogie con la crisi del 1992, tali che si potrebbe concludere che in vent’anni nulla è cambiato. Questa la fotografia scattata dall’Istat all’Italia e agli italiani nel Rapporto annuale 2012, dalla quale emerge come tuttavia modifiche profonde sono avvenute nel nostro paese nell’ultimo ventennio. In questi venti anni la performance di crescita dell’economia italiana è risultata inferiore a quella dei principali partner europei, con un divario che si è ulteriormente allargato nel periodo più recente. Importanti riflessi ci sono stati sia sulla capacità di consumo e di risparmio delle famiglie, sia sulla sostenibilità dei nostri conti pubblici. Inoltre, è venuto sempre meno nell’ultimo ventennio il modello di famiglia tradizionale, fatta da coniugi con figli, anche nel Mezzogiorno, un tempo roccaforte del vecchio nucleo familiare. Nell’attuale fase ciclica, sottolinea l’Istat, l’aumento delle esportazioni costituisce la principale componente a sostegno della crescita del Pil italiano. «L’Italia tra la crisi del 1992 e le attuali difficoltà».

Come nel 1992, spiega l’Istat, nel 2011 l’Italia vive una grave crisi di carattere finanziario, con serie ripercussioni sul sistema economico e sulle condizioni di vita della popolazione. Tante sono le analogie con la crisi del 1992, che si potrebbe concludere che in vent’anni nulla è cambiato. Invece, modifiche profonde sono avvenute nel nostro paese. In questo periodo la crescita della popolazione è avvenuta unicamente grazie all’aumento della popolazione straniera: solo negli ultimi dieci anni, quest’ultima è triplicata ed è avvenuto un significativo processo di integrazione, pur in presenza di evidenti segnali di difficoltà, soprattutto tra le nuove generazioni. In Italia si vive più a lungo, ma si fanno meno figli e la popolazione invecchia molto più del resto d’Europa. La famiglia tradizionale fatta da coniugi con figli non è più il modello dominante. Si sono spostate in avanti le diverse fasi della vita: i giovani tardano a uscire dalla famiglia e l’età media delle madri alla nascita del primo figlio cresce di generazione in generazione. Anche il mercato del lavoro è profondamente cambiato: gli occupati totali sono aumentati di quasi il 6 per cento, ma i contratti a tempo determinato sono cresciuti di quasi il 50 per cento, a fronte di un incremento generale dell’occupazione dipendente di circa il 14 per cento. La crescita del tempo determinato e del part time ha interessato soprattutto i giovani e le donne. Quest’ultime hanno assunto nuovi modelli di comportamento: investono molto di più in capitale umano e per partecipazione e successi nel percorso scolastico hanno superato gli uomini. Nonostante ciò, nel mondo del lavoro restano decise differenze di genere.

Anche il sistema economico si è modificato: ora è più terziarizzato, ma la manifattura mantiene un modello di specializzazione solo parzialmente diverso dal passato: si è ridotto il peso delle grandi imprese, a favore di quelle piccole e, soprattutto, medie dimensioni. «Un difficile passaggio per l’economia italiana». L’istituto di statistica sottolinea come nel Belpaese l’incertezza che segna l’attuale fase ciclica e l’attività produttiva inutilizzata costituiscono un fattore di freno alle decisioni di investimento delle imprese, sulle quali pesano anche le difficoltà incontrate nell’accesso al credito bancario, soprattutto per le Pmi. In particolare, nei comparti della manifattura e dei servizi sembrano emergere indizi di credit crunch tra la fine del 2011 e il primo trimestre 2012. Nel 2011 il tasso d’inflazione è quasi raddoppiato rispetto all’anno precedente e l’aumento dei prezzi dei prodotti acquistati più frequentemente è stato particolarmente elevato. Dopo un biennio di discesa, nel 2011 l’occupazione ha registrato un leggero aumento: alla crescita dell’occupazione straniera si è accompagnata una diminuzione di quella italiana. È proseguita la diminuzione dell’occupazione giovanile e di quella a tempo pieno, mentre è continuato l’aumento del lavoro part time, ma si tratta soprattutto di un impiego accettato in mancanza di un lavoro a tempo pieno. La debolezza della spesa per consumi è stata determinata da una progressiva riduzione del potere d’acquisto delle famiglie, nonostante la riduzione della propensione al risparmio, attestatasi al valore più basso dal 1995. In un contesto di generale rallentamento della domanda mondiale, la performance delle vendite all’estero è stata ancora positiva e in linea con quella media dell’area euro. Nell’attuale fase ciclica, sottolinea l’Istat, l’aumento delle esportazioni costituisce la principale componente a sostegno della crescita del Pil italiano. «Apertura internazionale e potenzialità di crescita del sistema produttivo italiano». Nel 2011, rileva l’istituto di statistica, la domanda estera netta ha ripreso, dopo molti anni, il ruolo di principale motore della crescita. Le opportunità offerte dai mercati esteri sono ancora considerevoli. Il nostro sistema esportatore ha, infatti, mostrato negli ultimi anni notevoli capacità di adattamento, ma il confronto europeo mostra per l’Italia un livello di apertura internazionale agli scambi di merci ancora relativamente ridotto, che lascia spazi di miglioramento. Gran parte delle imprese ha superato l’anno scorso i livelli di export raggiunti prima della crisi del 2009: a trainare la domanda estera sono soprattutto i mercati extra-Ue, su cui riescono a imporsi le imprese di maggiori dimensioni, mentre su quelli europei sono le Pmi ad avere le migliori performance. La potenzialità di crescita del sistema produttivo italiano sui mercati esteri, così come sul mercato interno, sono ostacolate da fattori strutturali e di sistema. Agli annosi problemi legati a complessi assetti normativi e all’inefficienza della giustizia civile, si aggiungono servizi logistici non allineati con quelli dei principali paesi europei. Tutto ciò si associa a un sistema dei trasporti scarsamente dinamico e ancora troppo dipendente dalla modalità stradale. Inoltre, gli investimenti pubblici, importante fattore di crescita economica, sono inferiori alla media europea. «Disuguaglianze, equità e servizi ai cittadini». L’Istat sottolinea come il sistema delle imposte sui redditi italiano, pur basato su criteri di equità, subisce alcune distorsioni derivanti dall’insieme degli sgravi e agevolazioni previsto dalla normativa, che è divenuto negli anni molto eterogeneo, finendo per determinare una sorta di «personalizzazione» dell’imposta. Per quanto riguarda la mobilità sociale, l’istituto di statistica rileva come l’Italia è tuttora un paese caratterizzato da scarsa «fluidità»: per esempio, il sistema di istruzione, che dovrebbe essere lo strumento principale per sostenere la mobilità sociale, offre migliori opportunità ai figli delle classi superiori. Disuguaglianze persistono anche all’interno della famiglia: la distribuzione dei ruoli economici e la ripartizione del lavoro di cura sono, nel nostro paese, ancora squilibrate a sfavore delle donne: ciò influenza la partecipazione femminile al mercato del lavoro e, quindi, la distribuzione dei redditi. Anche la qualità della salute individuale è influenzata dal livello socio-economico di appartenenza. Disparità di rilievo di rinvengono, inoltre, in conseguenza dell’appartenenza a una specifica area territoriale, anche per la disponibilità e la qualità dei servizi pubblici. I servizi e le prestazioni sociali erogati dai comuni variano notevolmente per regione e per popolosità del comune di residenza. Disomogenea appare anche la distribuzione sul territorio dei più importanti servizi alle famiglie, come gli asili nido, l’assistenza sociale ai disabili e agli anziani non autosufficienti. Negli ultimi anni è cresciuto, in modo piuttosto disordinato, anche il consumo del suolo, con conseguente aumento dei problemi di mobilità dei cittadini.